Proprio ieri sono stata alla mostra organizzata da Linea d’ombra al
Castel Sismondo a Rimini (visitabile fino al 3 giugno 2012). La mostra ‘Da Vermeer a Kandinsky’
ha l’ambizioso obiettivo di rappresentare mediante le opere il percorso
artistico cha va dal Quattrocento al Novecento, che siano emblema della pittura
nelle varie nazioni e nelle varie regioni d’Italia. Le aspirazioni sono alte e
l’obiettivo è con difficoltà raggiunto: lo spazio a disposizione e il numero
limitato di opere (relativamente all’ampio arco di tempo in esame) rende poco
chiaro il percorso.
I testi sulle pareti (molti ripresi dal catalogo, ma non
solo), in compenso, accompagnano con chiarezza e semplicità il visitatore lungo
la mostra, compensando il limite del percorso..
L’immagine scelta per rappresentare la mostra è la Vergine e il Bambino con San Girolamo e san Nicola da Tolentino (1523-24) di
Lorenzo Lotto. Colpisce già al primo sguardo il sapiente uso dei colori: il
morbido sfumato dei tessuti e la forza dei colori saturi, in particolare del
drappo verde appeso alle spalle delle figure e il rosso e il blu delle vesti della
madonna. Al contempo però è delicato nelle aureole e nella luce dorata che
protende dal Cristo, così come nel velo della Madonna, talmente leggero da
essere quasi impercettibile.
Commovente è la figura di San Girolamo, con il suo vecchio corpo ossuto e lo sguardo abbassato verso il crocefisso che tiene in mano. Piegato in avanti, con una mano sul cuore, la sua è una sofferenza profonda ma privata: gli occhi lucidi e una lacrima sincera, composta, pronta a rigargli il volto. Quella di San Girolamo, in quest’opera, è un’intima disperazione, riservata.
Ben diverse sono le lacrime di San Pietro nell’opera
di Murillo (1650-55) nella sala successiva. Anch’egli piange, ma con lo sguardo
rivolto al cielo, le mani incrociate e la bocca spalancata per chiedere
perdono: il suo pianto è segno di una profonda preghiera.
Ancora diverse le lacrime del San
Pietro penitente di Hendrick Ter Brugghen (1616). Le mani serrate e lo sguardo
fermo che cerca risposta, il santo ha la fronte corrugata da un dolore intenso
e vivo. Implora il perdono protendendosi in avanti, sino ad appoggiarsi al
tavolo: la sua è sempre una preghiera, ma stanca, disperata. Alle pareti appese
le chiavi, simbolo del santo.
A questo punto però farei un salto
indietro, al Gentiluomo con flauto del Savoldo (1525). Questa volta il tema non
è più sacro, ma siamo di fronte a un ritratto. La sala della mostra, in cui l'opera si trova, è impostata per far
comprendere l’influenza di Tiziano nel rinnovare la ritrattistica con l’inserimento
nei suoi soggetti della “segreta forza dell’animo”. Il gentiluomo è raffigurato dal Savoldo in una stanza,
circondato di libri e spartiti. Purtroppo il vetro messo a protezione dell’opera
ne penalizza la visione, creando un velo polveroso tra chi osserva e l’opera
stessa. Ciò che riesce comunque a colpire è lo sguardo vitreo del gentiluomo,
leggermente adombrato dal cappello: è uno sguardo che penetra ma non si fa
penetrare. Emerge una grande delicatezza, in un profondo silenzio.
Di Jacopo da Bassano è il Trasporto
di Cristo (di cui ho trovato soltanto questa riproduzione in bianco e nero purtroppo). Il corpo elegante, seppur pesante, del Cristo morto si contrappone allo sforzo di
Nicomede e Giuseppe d’Arimatea e ai gesti concitati delle Marie che tentano di
sorreggere la Vergine. La Madonna è ormai svenuta, a terra, anche se ha ancora
la fronte corrugata dal tentativo di trattenere il dolore di fronte al corpo
freddo del figlio. Sulla destra, in lontananza, si scorge il Golgota, con le
tre croci ancora alte. La drammaticità del momento è espressa dalla
contrapposizione fra il movimento concitato delle figure in primo piano,
in opposizione alla natura imponente e ferma, anche di fronte alla morte del
figlio di Dio. Tutta la metà superiore della tela è un inno alla natura, minacciosa
e solenne, con i suoi alti alberi e il cielo coperto.
Un’altra grande opera che non posso
fare a meno di citare è il Trittico del 1944 di Bacon, nella seconda versione
appartenente alla Tate di Londra (1988).
Bacon mi uccide: la forza dei suoi corpi trasfigurati che urlano nello spazio dilatato di queste grandi tele vuote…è straziante. Come sottolinea Fausto Lorenzi nel catalogo (e come ripreso nel testo sulla parete affianco all’opera): “per lui c’era solo il corpo, oltre quello il nulla in cui andare alla deriva”. Il profondo rosso sangue dello sfondo non dà tregua, mentre i corpi delle Erinni, piegati, contorti, mostrano le loro bocche urlanti, digrignando i denti. La forza perturbante dei corpi si scontra con la lineare fermezza dei piedistalli, che ricordano gli antichi palchi dei freakshow. L’intera opera è frutto di un’amara meditazione sulla morte: l’agitarsi grottesco della bestia umana in questo vuoto angosciante e il grigio cenere degli incarnati, ricordano tristemente che ogni affanno dell’uomo è vano e che in fondo ognuno quando muore è solo..